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Racconti – LiberaEspressione –

#Il filo bianco si tinge di rosso

di Irene Cocco – Lampedusa Gennaio 2018


L’ago penetra a fior di labbra passa prima su quello inferiore e poi punto croce col superiore, il filo bianco si tinge di rosso.

I volti appaiono impassibili, osservo rigida e filmo, per un istante la cronaca prevale sulla disperazione.

Scatto: uno, due, tre punti, labbra cucite. Un ricamo urla silenzioso.

Occhi di un verde-castano lucido vibrano più di qualsiasi corda vocale. Lo stomaco si contrae mi esplodono le lacrime in petto, ma se non piangono loro io che diritto ho?

  1. mi guarda interrogativo: “Ti ha fatto impressione? – No, Solo tanta tristezza.” So che non ha bisogno di spiegazioni.

 Ma loro sembrano viverla senza dramma, sono preparati, preparati a lottare come chi non ha più nulla da perdere, ad esprimere con un gesto estremo tutta la propria rabbia e il proprio desiderio di diritti negati, di libertà violentate, di un peccato originale di povertà che brama un battesimo di pietà. Inflessibili.

  1. M. prova a parlare, il sangue cola insieme alle lacrime. Sale e sole bruciano la ferita più sopportabile di una prigione, di una manganellata, di un lavoro non retribuito, di un figlio ed una moglie strappati, di un futuro precluso, della corruzione, della diseguaglianza, del mare in tempesta.

San Gerlando col suo giallo intenso si staglia contro un cielo azzurro di libertà, sui gradini seduti in tre file uomini coraggiosi a cuore teso protestano, etimologicamente dichiarano pubblicamente la propria volontà, esprimono solennemente il proprio diritto contro chi l’offende. Umanamente si privano di cibo ed acqua, rinunciano alla propria voce affinché gli venga concessa una speranza. La speranza, l’unica cosa che rimane senza bisogno di reclamarla. Ecco, quella. Loro hanno bisogno di ricordarci che non hanno più diritto neanche a quella.

La notte è gelida ma clemente senza pioggia o vento, il tè scalda corpi contratti dai brividi,  i teli termici e le coperte grigie forse non bastano, ma la determinazione della disperazione scalda più di un falò.

Don Carmelo spalanca le porte della Chiesa e dell’anima perché nel Vangelo sta scritto:”Chi accoglie voi accoglie me, e chi accoglie me accoglie colui che mi ha mandato.”

Uno, due, tre giorni … Ogni mattina arrivano le Forze dell’Ordine per provare a capire e ad ascoltare le istanze,  preparati ad un eventuale sgombero qualora ci fossero tensioni.

Oggi siamo stanchi e proviamo a spiegare perché, un ragazzo giovanissimo urla la sua disperazione tra le lacrime e il perché non può tornare indietro, le parole si confondono nel pianto.Vorrei filmare ma T. mi rimprovera aspramente e annichilisco. Mi chiedo se abbia ragione, ma il rispetto della sofferenza si confonde col bisogno di far andare quel dolore oltre, oltre la piazza , oltre i giorni e le notti di resistenza oltre un quotidiano locale. Dove? A colpire una sensibilità sopita o un’empatia atrofizzata? Anche il dolore ha una sua etica, oltre l’assuefazione e l’abitudine abbiamo ancora una scintilla di compassione? Una di ribellione? Quella che porta a “cambiare l’ordine delle cose”?

Cinque lunghi giorni di resistenza, di insulti ricevuti da passanti incattiviti da paure sconosciute ma anche di solidarietà anonima e preziosa, di sorrisi ricambiati  e grazie condivisi, di discussioni e rinunce, di speranze costruite, di possibilità sfiorate.

Ancora non abbiamo un finale, ma quando si sopravvive ai propri terrori si ha ancora il tempo per cambiarlo e renderlo forse un bel finale.

Puliamo le scale e la Chiesa che ci ha accolto, con naturalezza e rispetto.  Riprendiamo il nostro viaggio da un’isola che da carceriere diventa madre e prova a lasciarci andare.

 


 

Gaza #Parkour

Racconto di Matteo Delbò  – dicembre 2017 –


Day1. Tel Aviv. Tutto qui ha nomi di profeti, anche L’ostello si chiama “Abraham” ed è molto international, compreso il prezzo (60 dollari a testa) inclusivo di meditazione guidata alle 19 e play and pray alle 20. Quando però chiediamo un taxi per il confine tutti ci guardano allucinati: “why??????”. Che qualcuno si avvicini alle terre Pelestinesi risulta incomprensibile ai millennials israeliani che qui lavorano. La ragazza carina della reception dice che in tanti anni non le era mai capitato qualcuno qui le facesse “requests like yours”. Mi chiede che lavoro faccio e alla fine mi consiglia di fermare un taxi per strada; perché non si possa prenotare al telefono, dopo molte insistenze, rinuncio a capirlo. Fuori diluvia e le strade di Tel Aviv sono un fiume. un’ora dopo io e Manu siamo completamente fradici, la risposta più gentile ricevuta è: “it’s impossible to go there because it’s a little bit dangerous”. Consultiamo la rete e troviamo un treno che arriva nei pressi di Eretz. Con cinquanta Kili di bagagli addosso corriamo sotto il diluvio universale fino alla stazione. Passiamo laghi di fango e gruppi di eroinomani locali, Passiamo il metal detector e saliamo su un vagone che trasporta ragazzini in uniforme militare che vanno a sud, verso il confine. Con il nostro carico grondante siamo decisamente strani in mezzo a questa adolescenziale quotidianità’ di guerra. Ci sediamo vicino a due ragazzine in mimetica con un mitra a tracolla che è quasi più grosso di loro e fa’ davvero effetto tra acne e lucida labbra. Fuori dal finestrino scorre un paesaggio vuoto, fango e arbusti, qua e là qualche insediamento bianchissimo in lontananza. Arriviamo al capolinea di Haskalon, l’ultimo villaggio prima della striscia e ci precipitiamo dentro ad un taxi, determinati: se non ci porta non scendiamo! Il taxista è un immigrato moldavo e non fa’ problemi, qui siamo a sud e per 70 shekel si arriva fino al confine. 10 minuti e ci siamo, filo spinato, l’immenso muro divisorio e il check point: Heretz. Passare questo muro divisorio, il più riuscito tra i muri divisori del mondo, significa entrare in una prigione a cielo aperto lunga 40 kilometri, isolata per terra e per mare e abitata da 2 milioni di persone, un lembo di terra dove nascono una media di 5000 bambini al mese. Passiamo i controlli, il coordinamento del che ci hanno fatto dall’interno funziona alla perfezione, passato il varco israeliano seguiamo una scritta sbiadita sul muro con una freccia storta che indica la via. Da qui in poi inizia un vagabondaggio delirante attraverso stanze vuote che portano dentro altre stanze vuote che portano ad una gabbia che sembra non avere fine. Gaza inizia la’ in fondo.


Day2_ Ci viene a prendere Meri della cooperazione italiana e in meno di tre minuti siamo dentro. dopo gli interminabili interrogatori israeliani questo ingresso pare incredibile. Dall’ultima volta che siamo venuti le cose sono cambiate. Hamas, partito collocato nella “lista del terrore” dai principali paesi Occidentali, sempre più isolata a livello internazionale, ha lasciato il governo della Striscia, stipulando un accordo con Fatha. Mentre corriamo in macchina tra le macerie dell’ultima guerra cerco di capire in cosa consista questa “riconciliazione” tra le due fazioni che hanno segnato il destino di Gaza. Mary mi spiega che al momento è cambiato solo l’uniforme dei militari che controllo i borders, per la gente comune è sempre la stessa prigione. Entriamo nell’edificio dove ha sede l’ONG. Tutto è rimasto uguale ad un anno fa’, sistemiamo due materassi per terra, per ora rimaniamo qui, c’è luce internet e qualche volta l’acqua calda, beni rarissimi. Nella sala principale l’unico arredamento è un enorme striscione che ricorda Vittorio Arrigoni “son of Palestine”. Vittorio lavorava spesso qui dentro e della sua morte per mano di “estremisti islamici” chiedo al nostro fixer locale, Yousef. Mi racconta di un ragazzo italiano molto amato dalla gente, uno che ha scelto una forma di militanza politica internazionalista oggi chiamata “attivismo”. Vittorio Arrigoni era a mio avviso soprattutto un grande reporter, era indipendente, partecipava di ciò che raccontava, aveva un punto di vista fazioso e privilegiato per le popolazioni dei posti di cui parlava. Aveva raccontato l’operazione dell’esercito israeliano “piombo fuso” del 2004 rimanendo isolato all’interno della Striscia per tutta la durata dei bombardamenti. Da quel momento non aveva più smesso di scrivere denunciare e prendere parte, coinvolgendosi e riconoscendosi in una sola causa: quella del popolo Gazawi. Ma diventare una figura di riferimento senza un ruolo istituzionale in territori di guerra è un rischio molto alto. Viene rapito all’uscita della palestra dove si allenava da un sedicente gruppo Salafita che vuole ricattare Hamas offrendo un prigioniero occidentale in cambio della liberazione di uno sceicco del suo gruppo (Hamas, nel periodo di governo della Striscia ha smantellato senza mezze misure tutte le fazioni rivali). Il rapimento finisce male, pare che Arrigoni si ribelli e faccia resistenza e la colluttazione finisca malissimo. I servizi di intelligence di Hamas dopo tre giorni individuano la cellula e regolano i conti ammazzando i tre responsabili diretti, due giordani (!) e un palestinese. Di Vittorio e della sua scelta di lotta politica rimangono pubbliche il disegno della sua figura favolistica, pipa in bocca e sguardo fiero (che qui è quasi un logo simbolo di libertà) e una serie di reportage da questo fronte, il cui filo rosso è una frase che ispira un progetto: restiamo umani.


Day4_Ci sono posti della terra poverissimi. La Striscia è uno di questi. La sola economia che in circolo è quella degli aiuti umanitari. si campa di quello che noi chiameremmo assistenzialismo. Non c’è lavoro, non c’è energia elettrica se non per qualche ora al giorno, mai alla stessa ora e mai negli spazi pubblici. In più, con una cadenza quinquennale, la guerra distrugge quel poco che si riesce a costruire in termini di infrastrutture e beni personali. E’ in posti come questo che si realizza implacabilmente la trasformazione di un territorio in discarica. Un tempo Gaza era l’oasi delle meraviglie. Oggi aria, acqua e terra sono al collasso. L’accumulo di immondizia interno che non ha sfogo, le macerie accumulate in 70 anni di guerra, il fatto che le uniche cose che entrano siano i materiali di scarto dei paesi confinanti, tipo eternit, con cui qui costruiscono ogni cosa. Ho visto qualcosa di paragonabile nella terra dei fuochi ma qui bisogna moltiplicare per dieci. Si vive nel disastro e, come è umano, ci si abitua. Dopo quattro giorni abbiamo gli occhi che sono gonfi come meloni e la gola in fiamme. Abituarsi a questo ecosistema richiede uno slancio del sistema immunitario. Intanto ci muoviamo verso il confine nord, dove giriamo parecchie scene, e arriviamo a Kaniounis. Qui c’è l’upgrade. Se a Gaza City sono rimasti in pochi “internazionali “ qui davvero non arriva nessuno. Quando passiamo per le strade di questo enorme campo profughi trasformato dal tempo in una specie di delirante villaggio sabbioso la gente ci guarda come degli alieni appena sbarcati; sono letteralmente esterrefatti. Qualcuno trova il coraggio di dirci welcome. E, dopo qualche ora qui metto a fuoco cosa sia la stratificazione della poverta’. La Striscia è un posto molto povero. Ma anche tra i poveri c’è chi è più povero e ancora di più. E qui avverti anche l’enormità della disgrazia di questo popolo arabo oppresso da Israele ma usato, abusato e tradito da tutti gli Stati arabi. Vicino al cimitero islamico C’è un complesso di case popolari crivellate di proiettili di artiglieria dove andiamo a girare una scena. Sono i colpi sparati dalla colonia ebraica che sorgeva lì di fronte, quando gli insediamenti erano perfino dentro i miserabili 40 km della Striscia. Dentro il gruviera dei muri hanno fatto il nido centinaia di uccellini che qui sono un piatto prelibatissimo. Tutti mangiano tutti in un ciclo in cui la vita si rigenera implacabile. Piazziamo la camera e in un’attimo un’orda di bambini ci circonda. Mi è successo in altre parti del mondo ma qui è diverso. Sono furibondi. In pochi minuti la massa di creature, richiamate dalle grida, cresce esponenzialmente fino a comporre uno sciame impazzito che ci circonda e preme appiccicandosi addosso, aggrappandosi ad ogni lembo del nostro corpo alieno. Ho il cuore in gola, cerco di respirare in mezzo ad un assedio, mi difendo, li allontano ma non c’è modo, abbiamo perso il controllo. Se fosse un incubo comincerebbero a mangiare prima la telecamera poi me. Invece è la realtà e scappiamo con l’aiuto del fixer e dei nostri dieci (dico dieci!) parkourers. Metto la sicura alla macchina e stringo la camera per vedere se è danneggiata mentre dico go go go. Mentre partiamo sgommando loro ci seguono ancora e uno si aggrappa al finestrino. Vorrei scomparisse invece lo guardo. Ha il corpo di un bambino e la faccia di un adulto solcata da enormi tagli appena rimarginati, mi urla allo allo allo. Ciao ciao ciao.


Day7_ Quando ci siamo messi ad acquisire le schede mi sono accorto che ho ripreso tutta la scena del vespaio di bambini. Si vede che sto cercando l’inquadratura giusta con lo sfondo delle case crivellate, urlo a Manuele di decidere in fretta dove far passare i ragazzi del parkour e cerco di spostare quei bambini che mi vorrebbero entrare nel l’obiettivo, chiedo aiuto al fixer che urla di levarsi di torno e a quel punto la partita è persa. I bambini accorrono da ogni dove e la scena diventano loro, fine. Ok, penso, alla fine niente di che, ordinario delirio, forse eravamo solo sfiniti da ore di riprese sotto il sole, da giorni di viaggio, dall’immondizia che si respira. Però qualcosa mi colpisce. Mi è successo altrove (anche se mai con questa furia) di solito i bambini ti circondano perché vogliono qualcosa. Qui invece nessuno, dico nessuno, chiede nulla. In un modo feroce e animalesco vogliono e si prendono tutta (e non meno che tutta) la nostra attenzione. Ecco, ho pensato, questo è il punto. Quello a cui ho assistito, senza capire, lo rivedo ora come una sorta di urlo collettivo, non di carità ma di riconoscimento. È il bisogno imposto dalla realtà. Perché la Striscia, vista oggi, è un esperimento allucinato e perfettamente riuscito, qualcosa che se ci fosse qualche Foucault in circolazione correrebbe qui a scrivere “sorvegliare e punire 2, la massificazione del sistema carcerario”. Da qui nulla entra e nulla esce. La dimensione della progettualità è completamente bandita, ogni giorno replica perfettamente il giorno precedente, copia e incolla. Qualsiasi risorsa è stata sottratta, anche i pozzi d’acqua che ancora rimanevano. E poi il controllo: 24 ore su 24 hai nelle orecchie il ronzio fortissimo di decine di droni israeliani che riprendono e mappano dall’alto. Non scherzo: non è un ronzio da nulla, è, ovunque sei, qualunque cosa fai: ZzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzIo sono qui da una settimana sto diventando scemo. Infine c’è, sempre in agguato,quella che chiamano guerra, nulla più che un’esercitazione (o esecuzione) missilistica all’interno di un poligono di tiro che sono questi 40 km controllati al centimetro dall’alto. In tutto questo le ong del civilizzato mondo occidentale sono andate quasi tutte altrove, dove si concentrano i flussi di denaro, io le ho viste ammassate a centinaia ad Erbil, nel Kurdistan Iracheno. Tutta la “cooperazione italiana” ad esempio è in tutto il suo impegno e straordinaria energia umana Meri Calvelli, una che spiritualmente vale cento ma fisicamente è una e indivisibile. Anche le macchine con la sigla UN sul cofano che di solito splendono del bianco candore di budget altezzosi qui hanno la goffaggine di cilindrate superate e sono pure un po’ di arrugginite. Se poi lasci Gaza City e arrivi ai confini, dove la violenza della distruzione è stata all’altezza degli slogan di guerra “piombo fuso” o, direi, “fosforo dove ce’ pare”, ecco, qui davvero regna la furia del caos. Oggi giriamo ancora qui, precisamente all’interno del cimitero Islamico, migliaia di tombe scavate nella sabbia delle dune, bombardate a raffica dall’esercito israeliano durante l’ultimo assedio perché da qui Hamas ha fatto patire qualche missile kassam. Oggi, oltre alle tombe e alle preghiere ai defunti è il campo di corsa e salto dei nostri eroi, perfetto perché ci sono crateri, muri crollati, sabbia finissima e soprattutto la quiete, tantissima, inestimabile quiete. Lavoriamo per ore e i salti ci incantano, ogni tanto ci guardiamo intorno circospetti temendo che qualcuno ci venga a prelevare e fare a pezzi perché abbiamo violato il cimitero con la nostra foga filmica. Invece chi viene a pregare i propri morti prega, i ragazzi saltano sopra le tombe, noi filmiamo, i droni volano, la spazzatura brucia, il tempo scorre e viene sera. Lì ci fermiamo tutti a guardare un tramonto che incendia il cielo. L’aria del mare spazza via la puzza di immondizia bruciata, siamo sudati di lavoro, il richiamo del muaizzin si diffonde ovunque sconfiggendo il zanzario dei droni, siamo seduti su un mare di tombe gentili e, devo dire, tutto questo assomiglia ad una


 


 

 


 

 

Day14_ Ci tengo a dire due cose sul mezzo di locomozione che contende all’automobile tenuta insieme da fil di ferro il primato nella lotta (durissima) per la Mobilità nella Striscia. Questo mezzo è il carretto trainato dal quadrupede che io eleggo (ora e per sempre) mio animale guida, l’asino o somaro o ciuccio. Per dar conto della sua inestimabile prestazione d’opera per questo popolo recluso servirebbe un poeta. Io mi limito a tirare in ballo il concetto, oggi molto di moda, di Resilienza. La glorificazione della resilienza, vista da qui, assume la tetra crudezza del realismo: viste le incommensurabili sproporzioni di potenza ribellarsi è una pratica fuori gioco, e se un tempo si “resisteva” oggi si “resila”. Certo è che il popolo Gazawi, se ci fossero le paraOlimpiadi della disgrazia, starebbe sempre sul podio nella disciplina della resilienza. E altrettanto certo è che competerebbe montando in sella all’asinello che serve l’implacabile necessita’ dei poveri e dei poverissimi trascinandosi da un lato all’altro dei 40 km di questo lembo di terra portando pesi enormi ed essenziali. Quando ci sono i bombardamenti, ad esempio (qui anche ieri, sia la Jihad islamica che Hamas hanno scambiato razzi con le postazioni di confine di israele) ed è meglio non passare per la strada asfaltata, è lui che trascina i beni di prima necessità, tipo acqua e cibo sulla battigia del lungomare impedendo che parecchia gente muoia di fame e di sete. Poi, con le costole della fame in risalto al sole abbagliante, nei mercati, sulle dune di sabbia, tra le macerie delle case distrutte, prende fiato prima di ricominciare a dare il suo contributo di fatica. Ogni volta che, in una pausa delle riprese, me ne trovo a portata uno, io provo ad immortalare con la camera la dignità inestimabile di questo animale. Se ne accorge Abdhalla, uno dei ragazzi del team, che mi dice che è usanza trattarli davvero male: “here -dice- people don’t even think he is an animal”, non pensano neppure che sia un animale. Ecco, qui dove gli umani sono trattati come se non fossero nemmeno umani, nell’incessabile ciclo della sopraffazione delle creature, il somaro si riscatta di ogni male caricandosi sulla magrissima groppa tutto il peso del mondo.


Day16_Donald T. Proprio oggi ha reso il nostro soggiorno un po’ più complicato. Fortuna vuole che con la luce del sole tutto sparisca e ci si muova facile in incognito. Gaza by night.


Day18_Non abbiamo chiuso occhio, allibiti. Qui tutti sono sconvolti. Io penso, più di ogni altra cosa: può uno stato sovrano come Israele accattare che si decida qual’è la sua capitale via cavo da un governo straniero?


Day19_ È iniziata la terza intifada, tutte le fazioni palestinesi hanno deciso. Ieri era sciopero generale, i neri fuochi dei roghi di copertoni rendevano l’aria irrespirabile, gli F16 dell’esercito israeliano volavano bassi sopra il cielo di Gaza. Siamo rimasti a dormire a sud, a Kaniunis, per finire le riprese. L’architettura della distruzione, vista dal vivo, è incredibile. Quello che era L’aeroporto Yasser Arafat è oggi un immensa distesa di macerie e crateri così profondi che potrebbero ospitare case di un paio di piani. La potenza delle bombe sganciate qui deve essere stata allucinante. Camminiamo in mezzo ad un paesaggio lunare che qualcuno ha deciso coprire di rifiuti di ogni genere, carcasse di enormi animali morti comprese. È un’immensa discarica a cielo aperto che viene alimentata quotidianamente da camion fatiscenti che ci chiedono, per prima cosa, di non essere ripresi. Assicuriamo la nostra collaborazione e incitiamo i ragazzi a prepararsi per distogliere l’attenzione. Dopo il cimitero questo è il luogo che il Gaza Parkour Team ha scelto per le riprese. In effetti è spettacolare, l’hangar principale dove sorgeva la torre di controllo è contorto come un corpo straziato, i nervi di acciaio della struttura si stagliano sul cielo terso come mani scarnificate. Fare parkour qui in mezzo è come bere acqua alla fonte: voli tra le macerie, stacchi su cornicioni attaccati alla struttura da stringhe di ferro arrugginito, lanci a strapiombo dal terzo piano sulla sabbia che ha inghiottito il piano terra. Il problema è che è pericolosissimo. Ci eravamo detti: riprendiamo il parkour come se fossimo uno di loro, in mezzo a loro. Ma qui in mezzo? Qualche anno fa’ uno di loro è precipitato e si è fratturato 75 ossa, un altro si è fratturato due vertebre del collo atterrando di testa. Io l’anno scorso sono precipitato da una torre (sotto c’era fango grazie a qualche Dio). Non bastasse, appena arrivati a Gaza, lo stabilizzatore con cui abbiamo fatto prove a sfinimento per realizzare le immagini del secolo trema come una foglia. Così iniziamo a lavorare. Cerchiamo un compromesso accettabile, e questo è la parte più difficile. Mentre ci prepariamo per la prima corsa Ibrahim viene verso di noi e comincia ad urlarci contro perché perdiamo tempo: “I want to play, I want to play today!!!”. C’è una rabbia nelle sue parole che ci prende di sorpresa, ma la giornata di ieri era “la giornata della rabbia”, dunque si può capire. Perché oggi e da molto tempo, quello che fa’ questo gruppo di ragazzini anarchici e folgorati è trasfigurare scenari di guerra trasformandoli in campo da gioco. Il gioco contro ogni logica di distruzione, a tutti i costi. Dunque let’s play. Guardo Manuele che dice ready. prego e Vado in rec. Diciamo: go, go, go!


Day20_ Ci siamo svegliati nella casa di Jihad, nel villaggio di kaniunis, abbiamo deciso di non rientrare a Gaza City, Ieri gli F16 hanno bombardato diverse postazioni di Hamas e la strada principale ne costeggia diverse. Durante la notte la terra ha tremato per le bombe e poi è venuta l’alba. Fin dal primo mattino, nella ferita di sabbia finissima che divide le case del villaggio scorre la processione dei carretti degli ambulanti trainati dagli asini, uno porta un dolcetto al coccolato chiamato Oga e pane arabo Kaek, uno acqua semi-potabile, uno cloro per pulire le case. Emanuele fa’ una perfetta imitazione delle grida di richiamo “oga-kaek, kaek-kaek” che fa’ crepare di risate i ragazzi. Usciamo nel vicolo a prendere il te’ del mattino e i bambini ci salutano deridendoci, siamo ormai delle specie di ridicole star di quartiere, Emanuele lo chiamano Mr Bean, io sono rubbish hair. Ci sediamo con i ragazzi del parkour appoggiandoci ai muri delle case e mentre sorseggio il mio te’ guardo i tetti di eternit che coprono tutte queste costruzioni improvvisate. Gaza è nota a tutti per la guerra ma la cosa che più mi impressiona è il disastro ambientale. Un tempo questa era un’oasi delle mille e una notte, un lembo di sabbia affacciato sul mare che grazie alle sorgenti di acqua ribolliva di verde in una zona completamente desertica. La follia degli uomini ha trasformato un paradiso terrestre in un gigantesco campo profughi prima e, nel tempo, in questa discarica-prigione che ospita 2,5 milioni di persone. Le tende sono diventate baracche, le baracche costruzioni in muratura, i piani si sono alzati per ospitare famiglie che arrivano fino a 30 figli a nucleo. Solo le vie principali sono asfaltate e piene di crateri, appena entri nel cuore del villaggio cammini sulla sabbia di mare. E l’immondizia è ovunque. Tutto viene bruciato in roghi tossici che si alzano da ogni parte e le case sono fatte con i materiali di scarto dell’occidente (tipo eternit: perché spendere per smaltirlo quando si può rivendere ai disperati del mondo?). Le fogne scaricano in mare e manca l’elettricità che attivi i depuratori. E, come se non bastasse, in questi giorni di protesta ovunque bruciano copertoni di camion appestando l’aria e creando una polvere nera che ricopre le strade di polveri pesantissime. Nessuno qui sembra rendersene conto, hanno qualche rifiuto in mano e lo buttano lì dove sono, così funziona. Tranne Hakmed, il bambino del Gaza Parkour team, 12 anni. Ieri nel suo inglese gazawi mi ha detto: once upon the time Gaza was biutiful, now hell hell hell.


Day20_ Ci siamo svegliati nella casa di Jihad, nel villaggio di kaniunis, abbiamo deciso di non rientrare a Gaza City, Ieri gli F16 hanno bombardato diverse postazioni di Hamas e la strada principale ne costeggia diverse. Durante la notte la terra ha tremato per le bombe e poi è venuta l’alba. Fin dal primo mattino, nella ferita di sabbia finissima che divide le case del villaggio scorre la processione dei carretti degli ambulanti trainati dagli asini, uno porta un dolcetto al coccolato chiamato Oga e pane arabo Kaek, uno acqua semi-potabile, uno cloro per pulire le case. Emanuele fa’ una perfetta imitazione delle grida di richiamo “oga-kaek, kaek-kaek” che fa’ crepare di risate i ragazzi. Usciamo nel vicolo a prendere il te’ del mattino e i bambini ci salutano deridendoci, siamo ormai delle specie di ridicole star di quartiere, Emanuele lo chiamano Mr Bean, io sono rubbish hair. Ci sediamo con i ragazzi del parkour appoggiandoci ai muri delle case e mentre sorseggio il mio te’ guardo i tetti di eternit che coprono tutte queste costruzioni improvvisate. Gaza è nota a tutti per la guerra ma la cosa che più mi impressiona è il disastro ambientale. Un tempo questa era un’oasi delle mille e una notte, un lembo di sabbia affacciato sul mare che grazie alle sorgenti di acqua ribolliva di verde in una zona completamente desertica. La follia degli uomini ha trasformato un paradiso terrestre in un gigantesco campo profughi prima e, nel tempo, in questa discarica-prigione che ospita 2,5 milioni di persone. Le tende sono diventate baracche, le baracche costruzioni in muratura, i piani si sono alzati per ospitare famiglie che arrivano fino a 30 figli a nucleo. Solo le vie principali sono asfaltate e piene di crateri, appena entri nel cuore del villaggio cammini sulla sabbia di mare. E l’immondizia è ovunque. Tutto viene bruciato in roghi tossici che si alzano da ogni parte e le case sono fatte con i materiali di scarto dell’occidente (tipo eternit: perché spendere per smaltirlo quando si può rivendere ai disperati del mondo?). Le fogne scaricano in mare e manca l’elettricità che attivi i depuratori. E, come se non bastasse, in questi giorni di protesta ovunque bruciano copertoni di camion appestando l’aria e creando una polvere nera che ricopre le strade di polveri pesantissime. Nessuno qui sembra rendersene conto, hanno qualche rifiuto in mano e lo buttano lì dove sono, così funziona. Tranne Hakmed, il bambino del Gaza Parkour team, 12 anni. Ieri nel suo inglese gazawi mi ha detto: once upon the time Gaza was biutiful, now hell hell hell.


Day21_Se sei nato in una prigione per evadere devi rompere con qualcosa che fa’ parte di te. Se in una prigione sei cresciuto, per quanto tu possa odiare questa condizione, scappare significa abbandonare irrimediabilmente qualcosa che sei. Nel film ci sarà il Parkour, la guerra, la condizione di un intero popolo ma questa, identitaria, è la tensione su cui si svilupperanno le storie parallele dei due protagonisti del film, uno evaso e finito in una casa occupata in Italia, uno rimasto nella Striscia a vivere cercando di tenere insieme la squadra di parkouristi. Jihad Sultan è il protagonista della parte qui. E oggi, nel salutarlo, gli abbiamo detto: “we are proud end lucky that you are in the film.” È così davvero. L’orgoglio di avere questo ragazzo dentro al film è più forte di ogni tristezza per la separazione perché significa avere a disposizione materiale da cui emana bellezza, dignità, forza. Jihad viene da una tipica famiglia gazawi, suo padre era un campione di bodybuilding, una specie di Sylvester Stallone di Gaza, ci sono vecchie foto sbiadite di lui sul lungomare di Gaza, in pose da campione del cucco della riviera romagnola. Si è sposato due mogli (neanche tante per le usanze locali) mettendo al mondo una tribù di figli, non so quanti fratelli e 15 (!) sorelle. Qualche anno fa’ si
è ammalato di una malattia degenerativa e ora è un fuscello tremante di nervi disteso su un un letto e accudito amorevolmente dai figli. La madre di Jihad si chiama Aisha, è una robusta e silenziosissima donna araba con un’espressione addolorata per via delle ginocchia a pezzi, e’ diventata il nostro mito perché cucina meravigliosamente per chiunque le occupi il soggiorno e, quando le chiediamo di partecipare alle riprese ci fa due scene che rimaniamo senza parole. Molti dei fratelli di Jihad sono sposati con figli. Lui invece non ha seguito la legge di natura di queste parti che ti vuole marito e padre prima possibile, in parte perché con l’astinenza si tiene aperta la possibilità di andare via in parte perché, con la malattia del padre, è diventato il capofamiglia. Lo vedi da quel che succede quando arriva a casa, i bimbi dei fratelli gli si buttano addosso come all’animale guida rientrato alla tana. Jihad si occupa di tutto ed è rispettato da tutti perché ha l’autorevolezza di chi fa’ le cose per bene, non lascia indietro nessuno e ha una forza fuori al comune. E’ diventato il capitano della squadra ed è il capitano perfetto perché da ogni suo gesto traspare cuore e cura. Ieri sera, dopo una giornata infinita di lavoro, siamo rimasti da soli con lui e Abdhalla a pianificare il futuro del film e della squadra. Emanuele, con un certo orgoglio, gli faceva rivedere alcune scene. abbiamo rivisto insieme l’inizio e la fine del film e dicevamo Wow wow wow. Poi il messaggio girato il pomeriggio per il crowdfunding e scoppiavamo a ridere ad ogni ciak. Improvvisamente la guerra sembrava lontana e ci siam accorti che stavamo facendo molti progetti per il futuro. Ecco, ho pensato, ha funzionato: qualcosa che prigione non è.


 Last Day_ Uscire da Gaza è più complicato che entrare, il sistema di sicurezza è da film distopico. I movimenti in questo Stato, dall’aeroporto fino a qui, sono scanditi da interrogatori maniacali e piccoli abusi come ritrovare le valigie completamente sottosopra, i dolci palestinesi fatti a briciole. Uscire è un vero shock. Metti il piede fuori dal confine e non ci sono bombardamenti, non ci sono colpi di mortaio, non ci sono macerie ne’ immondizia. È tutto la’, a cento metri, dietro quel muro, come se un netturbino celeste avesse spazzato tutto il delirio del mondo sotto un tappeto di 40 km. Siamo storditi e così stanchi che non contrattiamo neppure il prezzo del taxi e dopo un’ora siamo a Tel Aviv, al punto di partenza, Abraham hostel. Entriamo e giovani di ogni nazione sono buttati su divanetti soft a sorseggiare aperitivi, c’è l’ “happy hour unlimited edition”. I pischelli sono per la maggior parte scalzi, stilosi, presi bene. Uno dello staff si avvicina e ci dice che stasera c’è il “meet, drink end love”, ci si trova, si cucinano insieme piatti vegan israeliani e si beve a pochi shekel. Il love viene di conseguenza. Decidiamo di bere una birra e poi Emanuele va’ a telefonare e io faccio una lungha doccia bollente (a Gaza non esisteva). Quello che succede di seguito credo dipenda dal fatto il mio sistema psico-emotivo è stato sottoposto a giorni di tale intensità che nell’ordine 1-birra a stomaco vuoto 2-vera doccia 3-shock da radiazioni al valico 4-20 giorni di assunzioni polveri pesantissime, ecco, queste cose insieme fanno che accada questo: nell’atrio dell’ostello c’è un enorme graffito che ritrae il profeta Abramo che si stacca dal muro e si viene a sedere al mio tavolo. La virtual reality ambulante si prende in mano la barba 3D e mi dice: -SHALOM aleikhem. Dico, senza indugio: SALAM alikum. Ci fissiamo come se ci sfidassimo. Lui: Sono אַבְרָהָם, ’Aḇrāhām nella Tánackh “Padre di molti”, anche detto, nel sacro Corano ‫ابراهيم‬‎, Ibrāhīm.” E mi fissa. Prendo coraggio, visto che mi lascia spazio, e gli accenno al fatto che non capisco questa cosa che di la’ dal muro c’è il delirio e qui, nel suo ostello, tutti sono in clima party. “Come la mettiamo -chiedo-?”. Lui aggrotta la fronte virtuale e dice: “conviene, a chi nasce, molta oculatezza nella scelta delle geometrie del caso!” Ah, Ecco- dico io- dunque così che ve la raccontate!”. la sua consistenza virtuale ha un tremore scomponendosi per un attimo in pixel incazzosi: “voi chi -chiede-?” “Voi voi, voi -gli imbruttisco io-“. “Attento a come parli, Dio a Noi ci perdona ogni giorno per quel che facciamo, ed è pure in debito!”. Ah, salto in piedi barcollante: “Dio pure si ferma ai confini, dentro uno, fuori un’altro, a 100 mt di distanza, come te la spieghi vecchio mio?”. Prima di crollare dal tavolo su cui mi sono arrampicato ed essere rianimato da una decina di millenials ubriachi mi ricordo di aver detto ancora: “ e comunque dentro quel confine ho ricevuto talmente tanti welcome e inviti e regali che mi si è aperto il cuore, a voi invece sembra che vi abbiano piantato un pugno di olive piccanti dritto nel… nei sogni.”

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